Appunti sull'allevamento dei bambini (1)


1.

Anni fa scrissi un articolo sull'educazione dei bambini (Miti di oggi: l'educazione dei bambini) che, sia pure in un ambito ristretto, ebbe una certa diffusione. In esso, partendo dal dato di realtà inquietante di un maggior coinvolgimento dei genitori nell'allevamento rispetto al passato, tale da produrre spesso una sindrome da stress, cui corrispondeva una condizione psicologica dei figli tutt'altro che serena, cercavo di analizzare le cause sociologiche, culturali e psicologiche di questo paradosso.

A distanza di quindici anni, il dato di partenza è diventato ancora più inquietante sia sul fronte dei genitori, che sempre più di frequente, soprattutto per quanto riguarda le madri, sviluppano un disagio psichico nel periodo dell'allevamento di un figlio, sia sul fronte dei bambini. Le statistiche a riguardo sono eloquenti. Più del 50% delle giovani madri manifestano una sindrome depressiva, più spesso frustra e paucisintomatica, ma talora conclamata. Un numero rilevante di coppie entrano in crisi in conseguenza della distribuzione delle responsabilità inerenti l'allevamento. I bambini fin dalla più tenera età manifestano in misura crescente disturbi del comportamento. Intorno ai sei anni il 15% di essi risulta affetto da sintomi psichici, leggeri e gravi: depressioni (6%), ansie, fobie, disturbi del comportamento alimentare, difficoltà di separazione dalle figure genitoriali, tics, balbuzie, fenomeni psicosomatici (cefalea, dolori addominali sine causa, allergie, ecc.).

L'allevamento, insomma, sta diventando un dramma nazionale. Si tratta però di un dramma occulto, vissuto in privato, raramente denunciato. Ciò dipende dal fatto che i genitori vivono l'esperienza dell’allevamento come un test psicologico e, in genere, si vergognano di trovare tante difficoltà nel tirare su anche un solo figlio laddove i genitori, i nonni, ecc. ne hanno allevati parecchi apparentemente senza problemi. Alcuni di essi hanno l’intuizione che qualcosa deve essere cambiato rispetto al passato. Ma quest’intuizione, di solito, non va al di là del riferimento (giusto) al fatto che i ritmi di vita sono divenuti, specie a livello urbano, più stressanti e che le madri si ritrovano spesso a svolgere un’attività lavorativa, e a quello (errato) che i bambini di oggi sono diversi da quelli di ieri.

Alla tendenza dei genitori a vergognarsi delle difficoltà che incontrano nell’adempimento del loro ruolo, fa riscontro una disattenzione pressoché completa da parte delle istituzioni. L’allarme per il calo demografico circola nella nostra società da alcuni anni e comporta, in prospettiva, l’inquietante scenario di una società futura caratterizzata da una netta prevalenza di individui di età superiore ai 65 anni. I provvedimenti adottati, però, negli ultimi anni per rilanciare la procreazione e assistere le famiglie sono assolutamente inadeguati in rapporto all’entità del problema. Essi, tra l’altro, riducendosi ad un modesto aiuto economico e a un potenziamento delle strutture asilari sembrano fare capo ad un’analisi estremamente riduttiva del problema stesso.

I Consultori familiari non funzionano. Gli specialisti — pediatri, psicologi, ecc. — che offrono il loro aiuto, spesso in privato, hanno le idee quanto mai confuse. Ci sono infiniti libri che "insegnano" ad allevare e ad educare i figli. Non posso certo sostenere di averli letti tutti. Il poco che ho letto, però, è infarcito di banalità montessoriane, di luoghi comuni, di errori.

Nell’attesa che qualcuno abbia il coraggio di affrontare il problema dell’allevamento nel suo spessore reale, che nello stesso tempo sociale, culturale e psicologico, mi limito ad affrontare alcuni nodi di esso: quelli, in particolare, che più di altri sembrano incidere nell’esperienza reale dei genitori.

L’intento di questi appunti ovviamente non è quello di fornire un baedeker di come si alleva un figlio, bensì di mobilitare una riflessione critica. Il superamento del problema richiederà una diversa programmazione sociale e una diversa cultura. Per ora, quello che si può fare è aiutare i genitori a non cadere in trappole culturali e psicologiche che, associate alle nuove condizioni di vita entro cui si realizza l’allevamento dei figli, rendono spesso il loro compito proibitivo e nevrotizzante.

2. Avere o non avere un figlio

Tutti sono d’accordo con il fatto che, oggi, la procreazione deve essere responsabile, vale a dire corrispondere ad una decisione consapevole e condivisa dei genitori di mettere al mondo un figlio. Tale criterio fa riferimento per un verso all’esperienza di un passato (recente) nel corso del quale i figli venivano accettati passivamente come espressione della volontà divina e venivano messi al mondo anche quando i genitori non li desideravano, per un altro alla consapevolezza dei sacrifici psicologici e economici legati alla nascita di un figlio, intuitivamente valutati come superiori rispetto al passato.

Per quanto accettato comunemente, il criterio della procreazione responsabile urta ancora contro una serie di resistenze tali per cui, ancora oggi, non è affatto irrilevante il numero dei figli che vengono al mondo per motivazioni che hanno poco a che vedere con una scelta libera dei genitori.

La circostanza più nota è quella dell’"incidente", vale a dire della gravidanza non voluta, che evoca spesso un rifiuto genitoriale. Data la possibilità (ancora) esistente di interrompere la gravidanza, un problema del genere sembrerebbe facile da risolvere. Nella realtà non è così perché, negli ultimi venti anni, l’aborto è stato criminalizzato dalla Chiesa cattolica. La diffusione attraverso i mass-media dei messaggi ecclesiali ha avuto l’effetto di indurre anche in persone laiche la convinzione che interrompere una gravidanza significa commettere un omicidio. Un numero ancora rilevante di genitori, e soprattutto di donne, sulle quali pesa la responsabilità ultima della decisione, cedono sotto la pressione di quest’atroce ricatto psicologico e culturale. Penso che sia un dovere degli intellettuali laici aiutare le coscienze a liberarsi da questo condizionamento in nome del diritto degli esseri viventi di concede o meno la vita ad altri esseri che se, dal momento del concepimento, non sono virtuali, fino ad una certa epoca dello sviluppo, sono vitalmente dipendenti e dunque, in senso proprio, parassitari.

A tal fine, sarebbe importante una campagna pubblicitaria (che potrebbe essere realizzata anche da un partito o da un movimento) incentrata sullo slogan "non mettere al mondo un figlio se non lo vuoi". Non si tratterebbe di istigare all’aborto, ma di incrementare la presa di coscienza che la decisione di mettere al mondo un figlio deve essere di ordine strettamente personale.

Questa considerazione porta a considerare un’altra circostanza meno nota che incide sulla libertà di quella decisione: la pressione sociale. Dai primordi fino a qualche secolo fa, la procreazione era un dovere prescritto non solo in nome della necessità propria di ogni gruppo sociale di riprodursi, ma soprattutto della paura dell’estinzione del gruppo stesso e al limite della specie. Se si pensa alla decimazione della popolazione occidentale nel corso delle epidemie medievali, allorché la popolazione europea si ridusse a trenta milioni di abitanti, non si stenta a capire l’origine del dovere di procreare.

Oggi il problema è opposto. I paesi sviluppati rischiano la senescenza, ma il mondo nel suo complesso è sovrapopolato. Cionondimeno, persiste un orientamento sociale che sollecita le giovani coppie a mettere al mondo dei figli: uno almeno, ma se possibile due, perché il ruolo del figlio unico è ritenuto a rischio psicologico.

Questa pressione non corrisponde più alla paura dell’estinzione. In alcuni casi, tale paura persiste laddove la nascita o meno di un figlio prosegue o pone fine al patronimico. Nella maggioranza dei casi, la pressione corrisponde ad un codice normativo. Se dopo due-tre anni di matrimonio, una coppia non ha figli "qualcuno" potrebbe pensare che uno dei due membri è sterile (un marchio per le famiglie di origine), qualcun altro che essi hanno operato una scelta di vita egoistica (un "peccato", che rivela la loro incapacità di sacrificarsi). In alcuni casi, infine, la pressione è riconducibile all’aspettativa dei nonni, soprattutto delle nonne, di riciclare la loro vita nel ruolo ad esse congeniale di allevatrici.

Il numero dei figli che vengono messi al mondo per soddisfare aspettative sociali o microsistemiche non è valutabile. Si tratta comunque di una "scelta", che, se non corrisponde ad una decisione libera dei genitori, può creare non pochi problemi.

Esiste infine un’altra circostanza, abbastanza ricorrente, ma poco nota. Alcuni genitori, gravati da una depressione strisciante o da un vuoto interiore, mettono al mondo un figlio per dare un senso alla propri vita. Alcune coppie, gravate da conflitti di vario genere che pongono il rapporto a rischio di separazione, identificano in un figlio la soluzione dei loro problemi. Si tratta di scelte psicologicamente comprensibili, ma spesso poco sensate o addirittura potenzialmente pericolose.

Per quanto una tradizione di matrice religiosa identifichi nella procreazione e nell’allevamento dei figli un’esperienza che dà senso alla vita, si può facilmente capire che le cose non stanno così. Il presupposto su cui si fonda tale tradizione è che il senso della vita si ricava dal donarsi all’altro, dall’altruismo scarificale. In realtà, con il carico di problemi che crea, non sempre compensati dall’affettività, un figlio può incrinare un equilibrio soggettivo già precario. Sembra piuttosto vero che la motivazione più sana che porta alla riproduzione è una vita che ha già senso, che riconosce nel ruolo genitoriale un modo per accrescerlo e offre a qualcun altro la possibilità di condividerlo.

La procreazione responsabile è da assumere come un valore assoluto di ordine etico e culturale, che implica il rispetto per chi opera una scelta di segno diverso.

3. La gravidanza

L’ossessione della natura è la riproduzione. A livello umano quest’ossessione, accentuata dal fatto che di norma la femmina umana partorisce un figlio alla volta, si esprime nella perpetua ricettività sessuale della donna. Nel ciclo che va dal menarca alla menopausa, circa trecentosessanta sono gli ovuli che vengono prodotti e che sono fecondabili. La fertilità maschile, addirittura, se non intervengono malattie, è senza limite.

L’ossessione della natura per la riproduzione fa sì che i meccanismi riproduttivi sono quasi perfetti. Posto che avvenga il concepimento e che si dia l’attecchimento, lo sviluppo dell’embrione e del feto, vale a dire il processo della gravidanza avviene in un ambiente protetto secondo leggi biologiche tali per cui esso procede naturalmente fino all’esito naturale — il parto — senza grandi problemi.

La gravidanza, dunque, è un processo fisiologico, che, come ogni evento biologico, può andare incontro a incidenti di percorso. Tali incidenti possono essere locali — difetti di attecchimento, distacchi placentari, infezioni o patologie tumorali uterine -, riguardare l’organismo materno — malattie preesistenti o che intervengono nel corso della gravidanza — o concernere l’embrione e il feto — malformazioni, ecc. Statisticamente tali incidenti di percorso sono pressoché insignificanti. Eccezion fatta per gli aborti spontanei, il 99% delle gravidanze hanno un decorso fisiologico, che, data la delicatezza del processo, comprova che la natura le cose le ha fatte piuttosto bene.

Da anni a questa parte, però, nel nostro mondo la gravidanza è stata medicalizzata. Essa, in pratica, viene assunta, nell’ottica dell’ideologia della prevenzione, come una circostanza biologica che, comportando rischi potenziali, va posta sotto il controllo medico. Sulla scorta di Illich, ho criticato altrove quell’ideologia, che, per scongiurare rischi statisticamente remoti, comporta il pericolo di indurre in tutta la popolazione uno stato di perpetuo allarme. Se questo è vero per tutti gli ambiti della medicina, per quanto concerne la gravidanza si tratta di un pericolo in atto, grave e tangibile.

Subito dopo il concepimento, la madre è sollecitata a consultare un ginecologo, il quale, secondo un protocollo ormai scontato, prescrive una serie di analisi di controllo. In un’ottica di sana prevenzione, questi tipo di approccio non è contestabile. Il numero degli esami prescritti, gran parte dei quali francamente inutili se la donna in questione non è affetta già da qualche malattia, istillano immediatamente nei genitori che non hanno competenze mediche il dubbio che una condizione di apparente normalità possa celare comunque delle insidie. Anche quando i risultati degli esami sono normali, è scontato che la donna incinta debba mantenersi sotto l’assiduo controllo medico: in breve, farsi visitare ed eseguire nuovi controlli all’incirca ogni mese. Si inaugura così il processo di medicalizzazione, all’insegna del fatto che, se anche tutto va bene, da un momento all’altro potrebbe presentarsi un problema di ordine medico.

La gravidanza viene insomma fatta vivere come un processo fisiologico perpetuamente a rischio di diventare patologico. In conseguenza di questo, i genitori, e la madre in particolare, sono richiamati a mantenere uno stato di vigilanza, a rilevare e fare presente al ginecologo prontamente qualunque "sintomo" sospetto.

Tale richiamo implica un messaggio subliminale inequivocabile, secondo il quale l’andamento e il buon esito della gravidanza non dipendono in gran parte dal caso e dalla natura, ma dalla scrupolosità della madre, vale a dire dalla sua capacità di tutelare preventivamente il frutto del concepimento da possibili danni. La responsabilizzazione della madre (e, in misura minore, del partner) avviene a tre livelli.

Il primo riguarda la scrupolosità nel sottoporsi ai controlli ginecologici e agli esami di laboratorio che vengono prescritti. Di solito la cadenza è mensile, ma se la gestante, preda di qualche dubbio, telefona al ginecologo, spesso questi la invita a farsi visitare.

A questo punto occorre aprire una parentesi. Lo Stato, attraverso le ASL, offre assistenza pubblica e gratuita alle gestanti. Questa però viene utilizzata in pratica solo dalle famiglie indigenti per due motivi. Il primo è che i ginecologi pubblici sono piuttosto sbrigativi in conseguenza del numero di visite che viene ad essi prescritto (all’incirca una ogni quindici minuti). E’ chiaro che una giovane donna incinta, e casomai primipara, ha bisogno di un rapporto fiduciario con il medico, che comporti anche il potersi rivolgere a lui in qualunque momento della giornata. Il secondo motivo, correlato al primo, è legato al parto: evento medicalizzato e tecnicizzato, ma che, per ogni donna, ha un significato soggettivo particolare. Giungere in sala parto di un ospedale privato affidandosi al ginecologo di turno è un terno al lotto. Farsi seguire da un ginecologo privato che assicuri l’assistenza al parto è, di conseguenza, una pratica piuttosto comune, anche se dispendiosa. In un periodo in cui la natalità diminuisce è comprensibile che i ginecologi sfruttino l’occasione di una gravidanza per mantenere allo stesso livello il loro reddito. Tra controlli, visite supplementari e parto una gravidanza fisiologica, che procede per conto suo senza alcuna complicanza, deve rendere all’incirca dai quattro ai cinque milioni di vecchie lire.

Il secondo livello riguarda l’alimentazione. L’umanità non si è mai preoccupata di quest’aspetto. E’proverbiale il fatto che le voglie alimentari delle gravide, quali che fossero, venivano soddisfatte. Ma la scienza ne sa più del diavolo. Alle gestanti vengono prescritte diete equilibrate, ma piuttosto rigorose, facendo presente che uno scostamento da esse può incidere sull’evoluzione della gravidanza. Tali diete, redatte al computer, non tengono alcun conto delle abitudini individuali. Spesso esse sono poco tollerabili e frustranti. Per mantenere la crescita del peso entro limiti fisiologici (un Kg al mese) e per non sottoporre l’organismo a "sforzi", si tratta di diete quasi da fame.

Il disagio legato a questo rigorismo dietetico raramente è elevato. Quale sacrificio può essere rifiutato per assicurare al feto una buona crescita? Il problema è che la dieta alimenta nella madre la consapevolezza di avere operato una scelta di vita molto impegnativa e molto limitativa.

Il terzo livello, complementare al secondo, riguarda lo stile di vita della madre. Pochi ginecologi hanno il buon senso di dire alla futura madre che, essendo la gravidanza un evento fisiologico, essa può continuare a vivere normalmente, astenendosi solo da sforzi o da situazioni stressanti del tutto particolari. I più, per il buon decorso della gravidanza, pensano che sia opportuno uno stato di riposo o di sforzo minimo. In conseguenza di questo, sconsigliano alla gestante di fare sport, di camminare troppo, di portare le buste della spesa, di darsi da fare in casa, di guidare la macchina, ecc. Sono in buona fede? Probabilmente sì, se si tiene conto che il loro obiettivo è tutelare la salute e lo sviluppo dell’embrione e del feto, rispetto al quale la madre è un "contenitore".

Il problema è che il contenitore in questione ha una soggettività. L’effetto costante della medicalizzazione della gravidanza, in nome della prevenzione, è uno stato di allarme più o meno spiccato della gestante (e del suo partner), che giunge a ritenere l’esito naturale della gravidanza come un colpo di fortuna, associato ad un senso di responsabilità che comporta la paura di poter agire qualche comportamento nocivo al bambino.

Dato che la nostra società comporta già di per sé un orientamento solitamente ansioso dei soggetti, si può ben capire che la gravidanza, in un numero rilevante di casi, diventa un’esperienza emotivamente gravosa, di cui non si vede la fine. In conseguenza di questo molte gestanti giungono al termine letteralmente esauste.

La medicalizzazione della gravidanza consegue solitamente un effetto stressante, tanto più irragionevole quanto più le risorse emotive dei genitori richiedono un grosso investimento dopo il parto.

4.

Sulla tecnicizzazione del parto è stato pubblicato sul sito la testimonianza in prima persona di una mia amica psicologa. Non ho molto da aggiungere ad essa, se non alcune riflessioni che inquadrano il problema in una cornice più ampia.

Allorché, tirocinante dell’ultimo anno di medicina, presi a frequentare il reparto di ostetricia con uno sguardo già orientato a tenere conto di aspetti psicologici e culturali, mi resi subito conto che qualcosa non quadrava. Le donne in travaglio erano rigidamente separate dai familiari, relegate in uno spazio angusto delimitato da tende che non impedivano all’una di sentire i lamenti dell’altra (con il rischio di un contagio suggestivo). Alle richieste delle donne in travaglio, chiaramente rivolte ad ottenere un sostegno psicologico, le infermiere rispondevano con un atteggiamento ironico e tendenzialmente rimproverante ("non sei certo la prima a partorire", "hai goduto, adesso soffri", ecc.). Nella sala parto, la donna entrava da sola, e il parto era vissuto dai tecnici come una pratica burocratica.

Il numero dei parti distocici (quelli che non si aprivano) e dei cesarei era elevatissimo.

Nello stesso periodo, casualmente, mi capitò di leggere un capitolo di Antropologia strutturale di Lévi-Strauss, dedicato per l’appunto alla pratica sciamanica in virtù della quale una distocia da parto esitava in un parto naturale. Tale pratica era incentrata su di un lungo racconto che drammatizzava il tragitto del bambino per venire alla luce, rappresentandolo come una fuoriuscita da una foresta densa di insidie ai cui margini i membri della comunità attendevano il bambino e lo incoraggiavano.

Il racconto mi fece capire l’errore di fondo della tecnicizzazione occidentale. Il parto è un evento naturale, fisiologico, ma soggettivamente per la madre (specie per la primipara) e, forse, psicobiologicamente per il bambino è, di fatto, un evento emozionalmente drammatico. Come tale lo sciamano lo rappresentava, coinvolgendo tutta la comunità. La cura funzionava.

Oggi le cose sono in parte cambiate. E’ consentito almeno ad un familiare (di solito il partner) di assistere al travaglio e al parto. Tenendo conto dell’assurdo isolamento del passato, intervenuto peraltro rifiutando una tradizione che, a livello domestico, raccoglieva gran parte dei familiari intorno alla partoriente, si tratta di un progresso netto. Il parto in ospedale però rimane vincolato ad un tecnicismo burocratico che, come risulta dalla testimonianza della mia collega, incide dolorosamente.

Se si tiene conto, poi, di quello che è stato detto sulla medicalizzazione della gravidanza, un paradosso salta agli occhi. La gravidanza, che dovrebbe essere fatta vivere come un evento fisiologico, viene drammatizzata; il parto, evento fisiologico esso stesso ma carico di valenze emozionali per la partoriente, viene invece eccessivamente sdrammatizzato, fino a ridurlo ad un evento tecnico.

Che incidenza hanno la gravidanza e il parto sull’allevamento? Se i genitori vivono nove mesi in uno stato d’allarme perpetuo e se la donna sperimenta traumaticamente il parto, è evidente che il rapporto con il figlio s’inaugura, consciamente e inconsciamente, all’insegna del prezzo pagato in termini emozionali. Le depressioni e le psicosi puerperali, per quanto rare, rappresentano l’indizio di un desiderio inconscio di rifuggire dalle responsabilità legate all’allevamento. Certo, esse spesso fanno capo a problemi antichi e non risolti del soggetto. Ma chi può dire quanto incidano tutte le circostanze di cui si è parlato?

Dicembre 2004